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Capone (Ugl): serve nuovo modello contrattuale con partecipazione lavoratori

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Roma, 21 lug. (Labitalia) – “Sicuramente c’è bisogno di un nuovo modello contrattuale. Fermo restando la centralità del contratto collettivo nazionale di lavoro, il contratto di secondo livello ci vede disponibili all’apertura di un tavolo legato a un antico principio che seguiamo fin da quando siamo stati fondati come Cisnal nel 1950, che è la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa”. Così Francesco Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, con Labitalia, interviene sul tema ‘caldo’ della contrattazione.
“Abbiamo ancora modelli contrattuali -spiega Capone- legati al modello di produzione e alla grande industria degli anni ’50, che hanno tutelato fin ad oggi il mondo del lavoro. Negli anni ’50 avevamo un’industria con 20mila addetti nello stesso sito produttivo, oggi è tutto completamente cambiato”. Per l’Ugl, però, il cambiamento non può passare dalla perdita di diritti e tutele. “Cambiare un modello contrattuale e renderlo più adatto ai tempi -sottolinea Capone- non deve voler dire perdere in tutele, in diritti per i lavoratori, ma vuol dire semplicemente procurarsi e sperimentare modelli differenti”.
E Capone dice no ai passi in avanti di Confindustria. “Squinzi -sottolinea- è stato un po’ inquietante. Il cambio di un modello contrattuale, per renderlo uno strumento solo legato alla produttività aziendale, senza praticamente il quadro forte del contratto nazionale, non credo sia possibile. Io credo che dietro questo ci sia il tentativo di un vecchio modello e un vecchio sogno della Confindustria che è quello -rimarca il dirigente sindacale- di ricreare in qualche maniera la logica delle ‘gabbie salariali’, alle quali siamo assolutamente contrari”.
Il sindacato è comunque aperto al confronto. “L’Ugl pensa che sperimentare nuovi modelli -ribadisce Capone- è un’esigenza. E pensiamo che il contratto nazionale deve avere tutta la sua forza, essere la base sotto la quale non si può andare. Questo per evitare appunto diversi trattamenti tra regioni e territori”.
Al centro di un modello contrattuale, per l’Ugl, deve trovare posto la partecipazione dei lavoratori. “E’ un modello -sottolinea- di democrazia economica che viene applicato in altri paesi in particolare in Germania. Ed è un sistema che supera lo scontro di classe tra datore di lavoro e lavoratore e il concetto di sindacato contrapposto e conflittuale e arriva al negoziato tra componenti importanti del processo produttivo. Tanto chi ci mette l’idea imprenditoriale e il capitale, tanto chi ci mette la capacità di lavorare in quello specifico progetto”.
“La partecipazione -rimarca- è proprio il superamento del conflitto di classe ed è uno strumento di democrazia economica che consente di superare anche i momenti di crisi. Può essere lo strumento per consentire al sistema Italia di uscire dalle secche della crisi e rilanciare il Paese con una capacità produttiva che è poi il parametro con la quale si misura la ricchezza del Paese”.
E sul Jobs act Capone sottolinea che “è un provvedimento che, dietro all’esigenza delle riforme richieste dall’Europa, ha penalizzato in maniera devastante il mondo del lavoro. Il contratto a tutele crescenti si è rivelato un annullamento delle tutele non solo per i neo assunti ma anche per quelli che già lavorano. Questo è il primo vero danno fatto”.
Sul provvedimento “abbiamo espresso -sottolinea Capone- tutta la nostra contrarietà e il 12 dicembre scorso abbiamo uno sciopero nazionale con Cgil e Uil per dire no a questo provvedimento: abbiamo perso tutele, non abbiamo migliorato il mondo del lavoro”. Mondo del lavoro che ogni giorno si trova a dover affrontare centinaia di crisi aziendali, che “sono l’effetto -sottolinea Capone- di una mancanza assoluta di politiche industriali nel nostro Paese: se il nostro Paese non si dà una visione prospettica, non decide di fare un programma industriale vero, allora noi avremo continuamente crisi industriali”.
“Il dramma vero -rimarca Capone- è che dietro le grandi crisi industriali, anche di quelle per le quali si trova un’intesa, c’è un dramma ancora più grande che è quello delle imprese dell’indotto, delle quali si parla di meno rispetto all’azienda principale al centro della crisi. E tutte le aziende dell’indotto non godono dei benefici che in genere vengono dati per risolvere la crisi aziendale. E questo crea un problema sociale altissimo: siamo un Paese che continua ad avere tassi di disoccupazione a due cifre, troppo alti per il secondo Paese manifatturiero dopo la Germania”.
E sulla riforma del fisco annunciata da Renzi Capone è fermo: “abbiamo definito questo provvedimento una rivoluzione ‘berlusconiana’ e non una rivoluzione ‘copernicana’. Gli italiani ormai sanno che, se restiamo all’interno dei parametri di Maastricht, qualunque intervento sul sistema fiscale e delle tasse deve essere a saldo zero. Se tagliamo la tassa sulla prima casa, piuttosto che l’Irpef o altre forme di tassazione, da qualche parte questi soldi si devono prendere. E quindi il trucco da qualche parte c’è”.
“Un provvedimento da 50 miliardi -sottolinea Capone- non credo possa essere coperto dal maggior gettito prodotto dall’1,5% di crescita prevista per il nostro Paese nel 2015 e anche nel 2016”.
“Secondo me -insiste il sindacalista- è stata più una battuta giornalistica, una speranza. Non credo sia possibile. Questo provvedimento credo che sarà difficile da realizzare -conclude Capone- soprattutto nei termini che tutto questo porti poi dei benefici reali”.