Home Attualità A 12 anni da legge Biagi addio alle collaborazioni a progetto

A 12 anni da legge Biagi addio alle collaborazioni a progetto

0

Roma, 23 giu. (Labitalia) – Dodici anni esatti. Tanto sono durati i contratti di collaborazione a progetto (co.pro.), istituiti con la Legge Biagi nel 2003 e che, per effetto dell’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs Act, non potranno più essere stipulati. Resteranno in vita, fino alla loro scadenza, solo i co.pro. in corso.
“A fine 2013, anno cui si riferiscono gli ultimi dati Inps, i collaboratori -spiega a Labitalia Patrizio Di Nicola, sociologo del lavoro e docente all’Università ‘Sapienza’ di Roma- sono circa 502.000 nel settore privato, cui si aggiungono 42.400 collaboratori della pubblica amministrazione, settore dove è sopravvissuta la co.co.co”.
“La maggioranza di loro -spiega Di Nicola- lavora in monocommittenza, cioè con un solo committente, e non per tutto l’anno. Infatti il lavoro interessa in media 8 mesi l’anno con un reddito medio di 10.200 euro l’anno (10.100 nella Pa). Considerando che l’età media dei co.pro. è di 35 anni e che gli under 24, vocati ai ‘lavoretti’ soprattutto estivi, sono pochissimi, si può dire che per la stragrande maggioranza la collaborazione a progetto è una condizione strutturale di lavoro e non un momento di passaggio”.
Ora il decreto del Jobs Act cancella con un colpo di spugna il lavoro a progetto, nato nel 2003 con l’intenzione di contrastare le forme di utilizzo improprio del lavoro temporaneo. E con le stesse intenzioni si muove la nuova norma. “Da una parte -osserva Di Nicola- il Jobs Act individua un’anomalia, indicando che la collaborazione che dura tutto l’anno, full time e con un solo committente non è lavoro parasubordinato, e che deve essere ricondotta al lavoro dipendente. Dall’altra, incentiva in maniera sostanziosa, con 8.000 euro l’anno per tre anni, l’assunzione del collaboratore”.
Tutto semplice dunque? “No- spiega Di Nicola- perché questa trasformazione non potrà interessare tutti i 500.000 collaboratori. E questo per vari motivi: perché -elenca- ci sono industrie e lavorazioni a carattere prevalentemente stagionale e perché le aziende assumono solo nel momento in cui il lavoro c’è e serve a far entrare nell’impresa almeno 4 volte il costo del lavoratore stesso”.
E per quelli che verranno riassunti, ma non stabilizzati con il contratto a tutele crescenti, si aprono delle incognite contrattuali. “Non è chiaro -dice Di Nicola- cosa debba fare un’azienda nel caso in cui d’ora in avanti abbia bisogno di assumere un lavoratore per un vero progetto. Può prenderlo con una collaborazione occasionale, tipologia che però ha dei limiti retributivi (5.000 euro l’anno), oppure si può rivolgere ad un’agenzia di somministrazione, che però significa un costo del lavoro più alto”.
Oppure, paradossalmente, azzarda Di Nicola, “un buon commercialista può suggerire all’imprenditore di mettere in piedi una co.co.co che di fatto non è mai stata abolita, facendo riferimento all’articolo 2222 del Codice Civile e non al Jobs Act”.
Considerando però, avverte, “che si corre un rischio di non vedersi riconosciuta la validità della collaborazione in seguito alle verifiche di Inps e Ispettorato del lavoro”.
Comunque, conclude il professore, “la norma non è chiara e parla di abolizione della co.pro, a meno che non si facciano accordi tra le parti per consentire una deroga. Credo che questo interesserà ad esempio tutti i call center. Di sicuro, il ministero del Lavoro dovrà intervenire con molte circolari esplicative”.